RASSEGNA STAMPA
DIARIO - E se non paga nessuno?
Genova, 31 ottobre 2008
La scuola Diaz e l’ultimo grande processo sulle vergogne del G8
Dicevano: «Chi ha sbagliato sarà punito», ma non era vero.
I picchiatori di Genova fanno carriera e continuano a vestire la divisa
(con pistola e manganello). L’unico a essere stato degradato è il comandante
che ha denunciato le violenze. In polizia lo chiamano «infame»…
Mario Portanova
Per sette anni ci sono venuti a dire: «C’è un procedimento
penale, chi ha sbagliato pagherà». Non è vero.
La sentenza sull’irruzione alla scuola Diaz, ultimo atto del
G8 di Genova, dovrebbe arrivare il 7 novembre, ma comunque
andrà possiamo già dire che molti di quelli che
hanno «sbagliato», e proprio quelli che hanno «sbagliato
» di più, non pagheranno affatto.
Non pagheranno i poliziotti che hanno pestato le persone
che si trovavano nell’edificio. Non pagheranno quelli che
si sono accaniti sul mediattivista inglese Mark Covell, fuori
dalla scuola e prima dell’irruzione, riducendolo in fin di vita.
Non pagheranno perché neppure uno dei picchiatori è stato
individuato nell’inchiesta condotta dalla Procura di Genova,
a parte un caso di percosse relativo all’altra scuola perquisita
«per errore», la Pascoli, sede del Media center e degli avvocati
del Genoa Social Forum. Dei 29 imputati, tutti agenti,
funzionari e dirigenti della polizia di Stato, sono accusati
di lesioni sette capisquadra e un ispettore del VII Nucleo
sperimentale del Reparto mobile di Roma, il loro comandante
Michelangelo Fournier e il comandante del Reparto
Vincenzo Canterini. Si tratta di una sorta di responsabilità
indiretta, per non aver impedito la violenza dei sottoposti.
Nessuna vittima, infatti, è stata in grado di dare un
volto al proprio aggressore. L’azione si è svolta intorno
a mezzanotte, è durata circa tre minuti, gran parte
del personale indossava caschi e fazzoletti sul volto.
Nessun poliziotto, dal più alto dei dirigenti all’ultimo
degli agenti, ha mai fornito ai magistrati elementi utili
a individuare un collega violento. I pm della Procura
di Genova, Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini,
titolari dell’inchiesta, dicono che la notte di sabato 21
luglio 2001 intervennero almeno 292 operatori. Un avvocato
della difesa, Rinaldo Romanelli, ne ha contati ben
495, compresi i carabinieri che restarono fuori a cinturare
l’edificio. Davanti alla scuola Diaz lo Stato si presentò
con quasi 500 uomini, tanti quanti ne ha mandati
in Campania il mese scorso per combattere la camorra.
Di fronte al tentato omicidio di Covell – questo è il reato
ipotizzato dai pm contro ignoti – e agli altri 62 feriti
durante quell’operazione, 34 dei quali ricoverati in ospedale,
nessuno dei 500 ha visto nulla. A meno di futuri
spontanei moti di pentimento, quelli che hanno «sbagliato» accanendosi su gente indifesa continueranno serenamente
a indossare la divisa, il manganello e la pistola.
Perché il pestaggio è sicuramento avvenuto. Qualunque
sentenza venga emessa dalla prima sezione penale del tribunale
di Genova, presieduta da Gabrio Barone, che i 29 siano
tutti assolti o tutti condannati, il dato di fatto è accertato
e non cambia. All’interno della scuola Diaz, le forze dell’ordine
si abbandonarono a violenze non giustificate da alcuna
esigenza operativa. Non lo dicono soltanto la pubblica accusa
e le testimonianze univoche degli occupanti. Lo dicono anche
i pochissimi poliziotti che si sono decisi a parlare.
Il più importante è Fournier, il comandante del VII Nucleo,
i cui uomini furono tra i primi a sfondare e a entrare. Già
in istruttoria aveva descritto la «scena da macelleria messicana»
vista al primo piano della scuola. Sentito in aula come imputato
il 13 giugno 2007, non solo ha confermato tutto, ma ha rincarato
la dose. Ha riferito di «colluttazioni unilaterali», dove gli
occupanti le prendevano soltanto. «C’erano quattro o cinque
poliziotti», ha aggiunto, precisando di non essere in grado di
riconoscerli, «due in borghese e uno o due forse con la divisa
del Reparto mobile con la cintura bianca che stavano facendo
quello che non doveva essere fatto, cioè, una volta praticamente
inertizzati, stavano infierendo sui feriti». Un particolare taciuto
durante le indagini per «un senso di appartenenza» alla polizia
«che può essere anche confuso con omertà». Sempre al primo
piano, Fournier grida ai colleghi: «Basta, basta» – particolare
confermato da molti testimoni – dopo essere rimasto «terrorizzato,
basito» di fronte a una ragazza per terra «con la testa
aperta». Si trattava di Melanie Jonasch, 28 anni, studentessa
di Berlino, un altro «codice rosso» di quella notte.
Dopo la deposizione in aula il dirigente è stato punito,
ha detto in aula il suo legale Silvio Romanelli (padre del citato
Rinaldo). Mentre tutti gli alti dirigenti imputati per la
fallimentare operazione sono stati promossi, Fournier è stato
tolto dal comando degli uomini e relegato in un ufficio,
in quanto «infame» – sono parole dell’avvocato Romanelli –
«che ha parlato male della polizia». Un altro uomo del VII
Nucleo, il caposquadra Vincenzo Compagnone, durante le
indagini preliminari aveva affermato di aver visto colleghi
«accanirsi a picchiare come belve dei ragazzi».
La violenza fu gratuita. Nessuno dei 93 arrestati alla Diaz
è stato accusato di specifici episodi di resistenza. L’unico episodio
circostanziato è quello indicato dall’agente Massimo
Nucera, che raccontò di essere stato accoltellato in una colluttazione
e di essersela cavata senza danni grazie alle protezioni.
È uno dei punti più controversi del processo. Ci sono
state perizie dagli esiti discordanti sul giubbotto e sul corpetto.
Nucera è imputato per calunnia e falso ideologico insieme
all’ispettore Maurizio Panzieri, indicato come unico testimone
dell’accaduto. Per l’accusa, si tratta di un finto accoltellamento,
simulato a tavolino per giustificare a posteriori tutti quei feriti,
con la stessa logica delle bottiglie molotov introdotte dalla polizia
nella scuola. Comunque sia andata, l’episodio è collocato
da Nucera ai piani superiori, in un momento in cui gli occupanti
della palestra al pianterreno hanno già subito violenze,
compreso un gruppo di giovani spagnoli a cui nessuno ha mai
contestato alcuna reazione. E mentre molti innocenti hanno
subito ferite che hanno richiesto mesi – in certi casi anni – di
cure e interventi chirurgici, il presunto autore del tentato omicidio
di Nucera – il segno della lama era all’altezza del cuore
– non è stato oggetto di particolari attenzioni, tanto da riuscire
poi a confondersi nella folla degli arrestati.
La sola resistenza riconosciuta da tutti, descritta anche
da diversi occupanti, è consistita nella chiusura del cancello
con una catena e un lucchetto e nell’effimera barricata di sedie
e tavoli collocata dietro la porta d’ingresso della palestra
all’arrivo della polizia. Accusa e difesa si sono divise invece
su quello che è accaduto prima. Gli agenti sarebbero stati accolti
da lanci di oggetti dalle finestre, compreso un pesante
maglio da cantiere, secondo le ricostruzioni di alcuni avvocati
dei poliziotti. Dalle finestre sarebbe caduto poco o niente,
secondo i pm e le parti civili. L’altro episodio contestato è
quello che dà origine all’operazione: l’attacco al «pattuglione
» di polizia che passa sotto la scuola in serata. Dalla folla
di persone radunate sotto le scuole dell’angusta via Battisti
parte sicuramente il lancio di qualche oggetto e il grido «assassini!». Poca roba, secondo la Procura; un’azione più grave
o comunque «percepita» come pericolosa da chi la subì,
secondo gli avvocati delle difese. Da qui, le riunioni in Questura
e la decisione di procedere a una perquisizione, presa
soprattutto dagli alti vertici «romani» contro il parere dei genovesi,
in particolare del questore Francesco Colucci e del
capo della Digos Spartaco Mortola.
L’operazione si è risolta in un disastro, ammesso anche
da diversi avvocati della difesa: un «momento di follia» in cui
una trentina di poliziotti impauriti «hanno perso il controllo»,
ha detto Silvio Romanelli. C’erano operatori «con l’animo eccitato
dalla volontà di punire i black bloc», ha osservato suo
figlio Rinaldo, e chi ha pestato Covell «è indegno di vestire
la divisa». Secondo Raimondo Romano, legale dell’allora dirigente
della Squadra mobile di Genova Nando Dominici,
l’irruzione è «finita in modo sciagurato». E così via.
Un’altra certezza che non sarà toccata dalla sentenza riguarda
le famose molotov. Furono portate alla Diaz dalla polizia
e poi vennero attribuite agli occupanti. Diventarono la
prova principe della loro appartenza in solido «all’organizzazione
denominata “tute nere”», come si legge nella notizia
di reato sottoscritta da Mortola e Dominici. I 93 arrestati
furono accusati, oltre che di resistenza aggravata, di associazione
per delinquere finalizzata alla devastazione e al
saccheggio: una spada di Damocle con pene da 8 a 15 anni
di carcere dalla quale furono «archiviati» soltanto tre anni
dopo. Che fossero o meno le stesse bottiglie rinvenute
quel pomeriggio in corso Italia dal vicequestore Pasquale
Guaglione, di sicuro arrivarono alla Diaz sul Magnum guidato
dall’assistente Michele Burgio (oggi non più in polizia).
Poco dopo l’irruzione, Burgio le consegnò al suo diretto superiore
Pietro Troiani, vicequestore aggiunto del Reparto
mobile di Roma. Fu quest’ultimo a innescare la catena che
le vide finire trionfalmente tra i reperti sequestrati. Nessuno
dei due nega il fatto. L’avvocato di Troiani, Giorgio Zunino,
con un azzardo linguistico ha definito quella del suo assistito
«una leggerezza grave». Secondo la sua versione, il funzionario,
stanchissimo, si ritrova in mano le molotov e se ne vuole
disfare, consegnandole all’amico Massimiliano Di Bernardini,
vicequestore della Squadra mobile di Roma (vittima di un
gravissimo incidente in moto nel 2004 e da allora impossibilitato
a presentarsi in aula). Da lì, le molotov, contenute in un
sacchetto blu, arrivano all’attenzione degli alti gradi: Gilberto
Caldarozzi, vicedirettore del Servizio centrale operativo della
polizia; Franco Gratteri, il direttore; Giovanni Luperi, vicedirettore
dell’Ucigos, ripreso in un filmato con il sacchetto
in mano durante un «conciliabolo» con i dirigenti citati, presenti
anche Canterini, Mortola e altri funzionari. Chi, lungo
questa catena, è consapevole del falso? Chi è invece ingannato
dall’anello precedente? Lo dirà il tribunale.
Sicuramente falsi sono, di conseguenza, i verbali di perquisizione
e arresto firmati quella notte, se non altro perché citano
le molotov e annoverano il povero Covell tra gli arrestati
dentro la scuola. Sono accusati di falso, calunnia e arresto illegale
i più alti dirigenti presenti sul posto, come Gratteri e
Luperi, e i firmatari, tra cui Caldarozzi, Mortola, Di Bernardini,
Dominici (uno dei 15 firmatari del verbale, dalla grafia frettolosa,
non è mai stato individuato e in questi sette anni si è
guardato bene dal farsi avanti). Tutto semplice, allora? Niente
affatto, dicono le difese. Gli imputati hanno avallato e sottoscritto
circostanze non vere, ma in buona fede, secondo le
conoscenze che potevano avere in quella notte drammatica
e confusa. A quanto ne sapevano loro, era stato trovato il covo
del blocco nero che aveva devastato Genova: che motivo
c’era di dubitare, anche delle molotov?
A proposito, c’erano davvero i black bloc alla Diaz? La
risposta più sensata è che avrebbero dovuto dircelo i poliziotti
intervenuti sul posto agli ordini dei nostri migliori investigatori.
Invece, è andata come è andata. Di fatto, il liceo
Pertini, dove è avvenuta l’irruzione, era un dormitorio non
controllato e aperto a tutti. Inoltre non «si è» un black bloc,
nel senso che non esiste alcuna organizzazione che si chiami
così, caso mai «si fa» il black bloc una volta scesi in piazza,
perché si è anarchici duri, o magari ultras del calcio, o magari
proprio quel giorno arrabbiati col mondo. Ci sono elementi
e testimonianze che associano la Diaz-Pertini al blocco
nero, ma risalgono in gran parte alla mattinata di venerdì 20
luglio, 48 ore prima dell’irruzione.
Comunque vada a finire l’ultimo grande processo del G8,
peraltro condannato alla prescrizione tombale come quello di
Bolzaneto chiuso il 14 luglio, la Diaz resta una pagina nera della
polizia italiana. Non a caso il dibattimento si è chiuso con
dure accuse reciproche tra gli avvocati della difesa. I legali del
VII nucleo hanno accusato gli alti vertici di voler scaricare tutta
la responsabilità sui «picchiatori» comandati da Canterini e
Fournier. Il legale di Di Bernardini, Massimo Biffa, ha accusato
Caldarozzi di mentire in merito al fatto di non conoscere il
suo assistito, una diatriba legata al caso delle molotov. Alfredo
Biondi, l’ex ministro, legale di Troiani e autore di un’istrionica
ultima arringa, quasi un Dario Fo conservatore, se l’è presa sia
con Caldarozzi sia con Mortola, anche loro rei, a suo dire, di far
finta di non conoscere il suo cliente. A proposito delle molotov,
Biondi ha citato Ionesco e De Filippo, ma anche Totò, raccontando
il loro ultimo passaggio conosciuto, cioè quando finiscono
nelle mani di un ispettore di cui nessuno sa nulla se non la
città di provenienza: «Parte… nopeo e parte ignoto».